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IL TORCHIO E LA MACINA
La macina e il frantoio per l'olio di lino possono a buon
diritto simboleggiare il cerchio dell'economia chiusa della zona: qui,
all'inizio dell'autunno, convenivano dalla Valle di Scalve (e anche dalle zone
limitrofe dell'alta Valle Seriana) le famiglie, portando il seme raccolto con
cura dalle donne, da cui si ricavava l'olio, condimento prezioso e apprezzato,
che occupava un posto importante nella alimentazione quotidiana. Una precisa
testimonianza consente di ricostruire agevolmente le varie fasi della
lavorazione, dalla macinatura (pure il frantoio era collegato alla grande
ruota), alla setacciatura (la farina di lino, tranne il piccolo quantitativo
riservato alla produzione di olio vergine, usato come medicinale, veniva
preventivamente riscaldata in forno per aumentare la resa in olio). Si è
conservata la madia dove veniva riposta la farina setacciata. L'ultima
operazione era la spremitura nel torchio a vite, azionato mediante il palo
collegato alla ruota interna, messa in movimento dagli uomini o, più
frequentemente, dai ragazzi. Ancora si conservano i pesi e i coperchi necessari
alla spremitura e la speciale pentola per la raccolta dell'olio.
Qui si cominciava a macinare e a schiacciare in autunno, in
ottobre, perché il lino matura in estate… Si andava avanti per due mesi, secondo
il raccolto di quell'anno. Dopo il disastro del Gleno, poi, che aveva portato
via il torchio di Bueggio, conveniva tutta la Valle di Scalve… Durante la
settimana si faceva il giro dei paesi… a caricare questa linosa e tutti
pesavano la loro linosa e mettevano il suo biglietto con il loro nome e il
peso… e noi mettevamo tutti i vari "sachelì" in una parete lunga, qui nel
torchio... Venivano perfino da Lizzola, da Valbondione… col suo "sachelì", col "gerlì"…
li vedo ancora… li conosco ancora tutti.
Ho lavorato qui per quarant'anni, dall'età di sei anni, perché era mio padre che
faceva andare il torchio…
Il lavoro durava due mesi… certo che in quei due mesi c'era proprio tanto da
fare: venivamo qui alle 4 del mattino e finivamo alle 8, 9 di sera… mio padre si
fermava fino alle dieci o alle 11, ma solo per macinare… le schiacciate si
facevano fin alle otto, perché poi la gente doveva tornare a casa era tardi per
quelli che dovevano poi tornare ai paesi…
Chi voleva pagare quel tanto che c'era da pagare coi soldi - lo chiamavano "ol
stupèl" - si diceva che aveva "stupèlat"… altrimenti come pagamento si prelevava
un po' di linosa e alla fine ne avevamo tanta.
Quando sono arrivati i nuovi proprietari, sono stata qui ancora ad aiutare… ho
dovuto insegnare un po' di segreti che avevo imparato da mio padre… perché
loro mettevano giù i 35 chili, ma non sapevano che dopo un po' la farina si
attaccava alla macina, perché cominciava già a fare l'olio… ma non si poteva più
setacciare dopo… allora bisognava mettere tre o quattro scodelle di acqua e si
asciugava subito e veniva tanta farina. Roba da non credere, ma era così…
Sui bordi della macina si mettevano dei sacchi, perché quando andava veloce non
uscisse la farina da tutte le parti… Dopo macinato, mettevamo la farina in uno
scrigno con due scompartimenti…
C'era un setaccio grande, quadro, e lì la setacciavamo e veniva una farina
morbida e restava dentro tutta quella che non era stata schiacciata bene e anche
qualche sporco… Guardavamo sempre prima, perché c'erano delle famiglie che
portavano anche la linosa sporca… e asciugava l'olio anche degli altri, perché
delle volte non avevano tutti i 35 chili, e bisognava mischiarla…
Si prendeva cinque chili di quella già setacciata e si portava nel forno… era
una specie di caldaia murata, piccoletta, di rame, ma stagnata... si accendeva
il fuoco con la legna minuta, da scaldarla un pochino... Quando volevano fare
l'olio per medicina, allora la farina non si scaldava e ne veniva più poco...
Poi mettevano la farina in due padelle rotonde, con delle pezze che le
chiamavano i "scèi"…li preparavamo bene e portavamo la farina al torchio con
le padelle, mio padre le voltava e ne metteva una su un coperchio di ferro
grosso, un'altra su un altro coperchio ancora, poi metteva sopra il peso e
faceva scendere la vite e cominciava a schiacciare col palo e cominciava uscire
anche l'olio.
Che non aveva paura andava sulla ruota per farla muovere, ma le donne avevano
paura... io aspettavo solo quello... E lo tutta contenta: mi davano due
centesimi per volta.
Arrivavano qui tutti contenti con padelle, fiaschi, lattine e portavano via il
loro olio... e stavano qui fino all'ultimo momento... tra una schiacciate
l'altra si aspettava dodici minuti, un quarto d'ora... perché ne usciva ancora un
po'... si raccoglieva fino all'ultima goccia… era tanto buono, facevamo persino
la minestra con quell'olio… era una cosa buona, genuina.
Dopo la schiacciata, restava "ol panèl". Erano forme grandi perché la
schiacciata era forte... I panèi andavano bene per le mucche… per i maiali…
bisognava togliere la tela che si era appiccicata e era così dura da levare via…
e costavano cari quegli "scèi"… li facevamo venire da fuori... Tutti quelli che
avevano bestiame, non solo di qui, anche della Valle Camonica, mi raccomandavano
tutti gli anni: " Metteteci da parte i "panèi".
Una volta siamo andati fino a Piadena a prendere un camion di linosa.
Dalla linosa forestiera venivano fuori due letti di olio di più… ma l'olio non
era così saporito… era bella lustra e tutto quanto, e più grossa anche della
nostra… ma l'olio non era così buono. Della nostra invece, ogni
schiacciata dava un chilo e due etti di olio, per ogni cinque chili di linosa.
Se invece non si faceva scaldare la farina, per fare l'olio medicinale veniva
due letti di meno, un chilo solo… e si chiamava olio vergine… e lo usavamo per
tutto… mal di gola, tosse… con un cucchiaio di olio di linosa sembrava che
passasse davvero… non so se era l'impressione o se facesse veramente bene.