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LINO, CANAPA, LANA

Ancora un lavoro affidato alle donne, anzi, per quanto riguarda il lino e la canapa, riservato in esclusiva, dalla semina della pianta alla trasformazione ultima della tela per confezionare lenzuola e indumenti. Le testimonianze orali permettono di seguire il ciclo vegetativo del lino e della canapa (è la prima coltura che prevale nettamente sulla seconda), seguito con cure assidue e scrupolose. Gli oggetti e gli attrezzi di questa sezione documentano le successive lavorazioni della fibra; il loro uso è esplicato puntualmente dagli stralci delle interviste e ulteriormente illustrato dalle fotografie di Simone Magnolini. La scavezzatura della canapa veniva effettuata con la spatola di legno o di ferro "as, spadula"; quella del lino con la mazzuola di legno "maòl". Seguiva l'operazione della gramolatura "gramola". Entrambe le fibre venivano pettinate con gli speciali pettini "spinass", di cui si espone una serie completa. Le operazioni della preparazione del filo si ripercorrono attraverso i vari filatoi "carilì", aspi "asp", arcolai "ghindol", che esistevano in tutte le case. Da notare, tra gli attrezzi più specializzati, il telaio per le fettucce "telèr de li nistule". Il telaio è una struttura complessa e richiede particolari abilità: le fasi conclusive dell'orditura e soprattutto della tessitura tendono ad essere affidate ad alcune donne, che vi si dedicano in modo precipuo. Ultimata la tessitura delle pezze "parèc", iniziava la lunga operazione del candeggio, le pezze erano trasportate con l'apposito bilancere, "cadù". La scarsità in termini quantitativi della produzione di lino e canapa (sovente era necessario aggiungere al filato domestico del cotone) non esclude però lo sfruttamento integrale della fibra e dei suoi derivati: il seme del lino veniva raccolto con ogni cura per la produzione dell'olio (i semi venivano ripuliti mediante il vaglio di vimini intrecciato); la stoppa, scarto della cardatura del lino e della canapa, veniva riutilizzata per confezionare sacchi e rozze coperte imbottite "pelòch" che si usavano nelle baite delle miniere. Nella sezione sono inoltre rappresentate le fasi della lavorazione della lana, con le rocche "roca", i fusi "fus", i filatoi "carel", lo scardasso "scartegia", ecc. Il graticcio qui esposto "agràt" è lo strumento più semplice per la cardatura della lana per i materassi. Nell'ultimo pannello è rappresentato ancora un lavoro tipico delle donne, ma non più legato al ciclo delle fibre tessili: sono prevalentemente le donne a battere l'orzo e il frumento con il correggiato "flèl". E ancora un lavoro in gruppo (come in gruppo, con reciproca cooperazione, si svolgevano varie fasi della lavorazione del lino e della canapa): nei cortili sotto i porticati, le donne si disponevano per lo più in due gruppi che si fronteggiavano manovrando i flèi con precisi e coordinati movimenti. Le mansioni più direttamente collegate alla casa e alla famiglia, che si svolgono tra le mura domestiche, sono soltanto una parte del lavoro delle donne, una parte che appare persino secondaria, se paragonata alla quantità delle inconbenze più "esterne", nella coltivazione dell'orto domestico e del campo, nella stalla, nel pascolo, nel bosco. Una molteplicità di funzioni che, nel loro insieme, comportano un pesantissimo carico di fatica e che, pur apparendo complementari e subordinate all'attività dell'uomo, sono tuttavia centrali e indispensabili nell'economia e nella vita della famiglia. E talvolta il ruolo di organizzatrice della propria e dell'altrui fatica porta la donna a esercitare una sorta di controllo sulla gestione della vita familiare e delle sue strategie, una forma di potere implicito riconosciuto formalmente, ma non per questo meno reale.

La mia mamma aveva il telaio, ma non faceva la tela per gli altri, solo la nostra personale… di solito a fare la tela si andava da due sorelle di Serta, le Angeline, che facevano le tessitrici di mestiere… o anche a Ca' Angelini, dove c'era un'altro telaio…
Anche a Barzesto c'erano due donne che facevano la tela per gli altri… erano molto brave… sono andate avanti fino a 20-25 anni fa.
Quando veniva il periodo, verso la primavera, la mia mamma metteva il telaio… lo metteva nella stalla… bisognava avere molta precisione nel piazzarlo bene e nel montarlo giusto, perché se no la tela veniva tutta storta e si faceva fatica…
quando il filo era pronto, si andava a Ca' Angelini, dove c'era l' "urdidù" per preparare l'ordito. Era come un cassone grande con tanti cassettini… si metteva giù un gomitolo per cassetto e dopo si passava il filo e si preparavano le matasse per caricare il telaio: ogni matassa aveva il suo mazzetto di fili che si chiamava la "purtada"… quando si arriva alla lunghezza di sette metri e mezzo, che era la misura della parete, si faceva un segno.
Per caricare il telaio si mettevano sul "sibol dol telèr" anche tre quattro pareti per volta: bisognava mettersi in due o tre per tirarla bene questa gran fascina di ordito, perché se non era messa sul "sibol" come si deve, si tribulava a far venire la tela…
Poi si mettevano il pettine e le "lisadure" e bisognava annodare il fili, perché quando si tagliava la tela, dopo che era finita la parete, si lasciavano sempre i fili inflati nelle "lisadure" e nel pettine… bisognava annodarli uno a uno con il suo sistema apposta, col "nodo do la tela"… e non dovevano accavallarsi i fili delle "purtade"…
Era un lavoro di precisione… far passare i fili a uno a uno fin che erano annotati tutti per bene… ci voleva più di mezza giornata.
Dopo si comiciava a imbastire il telaio, a tirare bene, perchè quando si annodava bisognava invece annodarlo molle, e si avviava la tela.
Prima di tessere, c'era da "'mbusmà" per togliere tutti i peli dal filo, se no si attaccavano nel pettine. Si faceva un polentino di crusca con un po' di grasso, di "sonza" e si passava questa crusca un po' unta con uno scopino apposta su tutti i fili, fin che restavano belli lisci e lustri. Fatto un pezzo di tela, si andava avanti a "'mbusmà" l'altro pezzo… di solito ci si metteva in due a fare questo lavoro…
si preparavano le spole con il carrellino apposta e poi con la navetta si faceva la tela, spingendo le "calcole" con i piedi, che bisognava spingerle forte tutte le volte che passava la navetta per fare incrociare il fili… per tenere la tela bella tirata, si metteva un ferro appena davanti al pettine… lo chiamavano la "tendecla"… arrivati alla lunghezza di sette metri e mezzo, che era segnata bene sui fili, si andava avanti ancora un pezzettino, poi si tagliava la tela perché era finita la parete. La larghezza era sempre sui 75-80 centimetri circa… una brava del mestiere ci teneva tre giorni a fare la parete.
Appena fatte, le pareti restavano dure, stinche, anche perché avevamo "'mbusmat" con quella crusca unta … era il momento di curare le pareti, per farle diventare belle bianche… durava quindici giorni quelle lavoro lì. Alla sera facevamo la lisciva con la cenere colata e l'acqua bollente: mettevamo le pareti nel mastello e quando l'acqua diventava fredda, la toglievamo da sotto aprendo la sua spina e la facevamo bollire un'altra volta e poi ancora… facevamo bollire anche tre volte per sera… si lasciavano dentro tutta notte e alla mattina si portavano fuori sul prato con la "cadù", che è una specie di "basol" fatto apposta per portare le pareti… o ha anche le matasse, dopo che avevamo fatto la "sendrada"…
Le stendevamo bene…. Bisognava continuare a bagnarle, perché non devono seccare, se no diventano rosse… anche quello era un lavoro… bisognava starci dietro tutto il giorno, andare continuamente a prendere l'acqua con i secchi… a curare le pareti ci si aiutava, ci si metteva insieme due o tre famiglie, se ne mettevano insieme dieci o quindici… quando usavamo la canapa per l'ordito, tessevamo ancora con quella… le pareti venivano belle forti… quando usavamo il lino, certe volte, anche per fare più tela, ordivamo o tessevamo, a seconda, con il cotone. Quando si ordiva con l'organzino e si tesseva con il lino venivano pareti di una finezza…
Con una parete si faceva un lenzuolo: si misuravano due teli e mezzo della lunghezza del letto e la metà si spartiva per far raggiungere la larghezza giusta…
Le lenzuola le facevamo belle grossette, con dentro anche un po' di "gaja" che spinava… si facevano due cernite della "gaja" dopo che si era scartata la più brutta "quella li serviva a imbottire i materassi… gli elastici", si filava e si tesseva anche la "stupulina" e la "gajulina": con queste si facevano le cose più andanti… gli asciugamani, i sacchi dei "strusì", i "pelòc"… certe donne venivano da Teveno, da Bueggio a cercare la stoppa… la filavano loro e si faceva a metà…
con la tela più bella, più fine, si facevano anche le camicie da donna e da uomo; si facevano gli asciugamani con il pizzo, con un po' di frangia… tutte ci arrangiavamo a ricamare...
ai tempi della mia mamma facevano anche i vestiti con la nostra tela, la tingevano… facevano anche belle coperte rigate, tingendo le matasse, di solito di rosso o di blu… non si comperava neanche un metro di tela… si faceva tutto con la nostra tela.
Con il lino e la canapa, si faceva anche "ol rèf" che si adoperava in famiglia: c'era quello "cru", greggio, che veniva solo filato e che si usava per le cose più grosse… ne andava tanto per apprezzare i calzerotti che si consumavano subito… allora si portavano gli zoccoli ferrati… quello bianco lo curavamo insieme alle pareti, era bello forte, non si rompeva mai… lo tingevamo anche e facevamo il filo nero per rammendare i vestiti e per cucirli…
Ma ci voleva un lavoro particolare, perché bisognava raddoppiare il filo e ritorcerlo… lo attaccavamo ha un anello…e lo torcevamo gugliata per gugliata, finché faceva la "risola".
Per seminare il lino non c'erano problemi di terreno, lo mettevamo dappertutto, ma bisognava saperlo coltivare, concimando bene il terreno e tenendolo pulito. Il lino richiedeva una cura tutta particolare, ma poi veniva di una bellezza!
Lo seminavamo ai primi di maggio, poi gli andavamo dietro con il concime delle capre e delle pecore, un concime bel fine che ci sembrava facesse bene e che portavamo nei prati noi donne, col gerlo.
Il lino lo tiravamo su in agosto: facevamo dei mucchietti e per qualche giorno lo lasciavamo sul campo, perché gli faceva bene; poi lo distendevamo un po' per parte e lo giravamo continuamente, in modo da farlo seccare. A fine agosto facevamo giù la semenza e lo mettevamo fuori di nuovo, in genere nei prati esposti al sole.
A questo punto, che fosse lino o che fosse canapa, lo portavamo alle "Sèle" e lo distendavamo a prendere acqua, così rimaneva solo il vero lino e si eliminava il superfluo.
Trascorso il tempo che ritenevano necessario per fargli prendere acqua a sufficienza, lo prendevamo e gli facevamo uscire alla stoppa: appena la sera avevamo un po' di tempo, facevamo fuori la stoppa e poi lo pestavamo con il "maol" e se era secco facevamo abbastanza presto. Tornavamo a farlo seccare e ancora di sera lo "gramolavamo": facevamo cuocere un pentolino di patate e lavoravamo cantando in allegria, perché quello era il nostro divertimento.
Dopo averlo gramolato, lo spinavamo. E dopo averlo spinato, uscivano dalle belle matasse e allora usavamo la rocca e lo filavamo: ci tenevamo tanto tempo, ma veniva così bene! Dopo averlo filato, facevamo su le "ase", lo facevamo bollire per un dato tempo e sapevamo che era cotto quando sentivamo l'odore; mettevamo dentro poco sapone e tanta cenere che veniva ben bianco, poi con una pezza lo tiravamo fuori e facevamo i gomitoli.
Io me ne intendo poco di metri quadri e non so dire con precisione come rendeva un prato di lino. Noi dicevamo così: un chilo di semente per cinque tavole e in queste tavole il lino a volte veniva su così spesso da fare 13-14 mucchietti ogni cinque tavole "ogni "bràca" per fare i mucchietti occhietti si chiamava "bataròlo"".
Mettevamo giù anche "ol cànef" "canapa", ma quello non c'era bisogno di mondarlo ed era più facile da tirare fuori perché era più alto: avevamo premura anche del cànef con la semente, ma non come con il lino e del resto il cànef usciva bene lo stesso. La canapa era più dura da tfilare, da spinare… invece del "maol", col cànef adoperavamo la "spàdula", con la sua asse fatta apposta.
Lino e cànef li abbiamo coltivati fino dopo la guerra, più o meno fino al 1950-55.
Ancora un lavoro affidato alle donne, o almeno prevalentemente a loro, come molti altri connessi alla coltivazione o all'allevamento, dalla cura del lino e della canapa alla lavorazione della lana: battere l'orzo o il frumento con il "flèl". Nei cortili, sotto i porticati, le donne, prestandosi reciprocamente aiuto, si dispongono perlopiù in due gruppi che si fronteggiano, manovrando i "flèi" con precisa e coordinata scansione di movimenti.

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