Il mantello dì Cebète

Minniti
a Diego Valeri
da:Il mantello di Cebète Editrice La Mandragora

Stavo attento, ogni mattina, prima della sveglia, appena lo sentissi scivolare, svelto, con le sue scarpe di pezza, lungo il corridoio. C'era in ogni cella, nell'angolo basso a destra della porta, un vano, che si apriva con due sportelli, uno interno e uno esterno; questo, naturalmente, chiuso a chiave; e nel vano ci stava il vaso, diciamo così, delle immondezze. Minnìti aveva l'incarico di togliere, vuotare e rimettere il vaso. Io seguivo questa operazione, di cella in cella, con tutti i rumori distinti: il vaso pieno che usciva, il vaso vuoto che rientrava; apertura e chiusura. Allora, subito, calavo giù dalla branda, aprivo lo sportello. Ecco Minnìti. Apre anche lui. E la mia prima comunicazione col di fuori, la prima voce amica del giorno. Mi chino giù. Dico: "Minnìti, ricòrdati, stai attento".
Per lavarmi la faccia avevo, sopra una mensoletta triangolare a muro, una catinella di ferro; ma così piccola che, se la riempivo di acqua, appena dentro le mani, tutta l'acqua si spandeva, e più che bagnarmi gli occhi e la fronte altro non potevo e facevo sempre un gran guazzo. Così quasi tutte le mattine. Ma se Minnìti vedeva per il corridoio una guardia meno rigorosa, gli accennava la mia cella, e quella veniva ad aprirmi. Ed io, rapidissimamente, con l'asciugamano e il sapone già pronti, mi buttavo fuori, in una stanzetta che avevo di fronte, dove Minnìti andava a rovesciare i suoi vasi; e lì, proprio sopra il gittatoio, c'era una cannella di forte acqua: e quelle mattine un po' meglio del solito mi potevo risciacquare e lavare.
Minnìti era un comune galeotto. Perché fosse lì dentro, a lui non chiesi mai. Un ladruncolo, pare, di biciclette. Altro mi dissero altri. Ma accusarsi a vicenda, in carcere, massime dell'accusa di spia, è abitudine di tutti: dei galeotti fra loro, dei secondini tra loro, dei secondini col capoguardia, e viceversa. Forse, una forma di difesa, più che di offesa. Sopra quel suo disordine di abiti, calzoni tenuti insieme da toppe e rammendi, giacca sfilacciata e sbrindellata, aveva un volto quasi sempre fresco, e i capelli ravviati, e un'aria gioviale e placida. A me si era molto affezionato. Non certo per il poco pane che gli davo ogni giorno dai resti del mio mangiare. Ma la prima volta che mi parlò, udito il suo parlare genovese, di Zèna, io gli dissi che conoscevo la sua bella e grande città, che ero stato alla Spezia tanti anni, che molto amavo la Liguria e la sua gente, e dunque mi parlasse pure nel suo dialetto, anche nel suo più difficile dialetto di genovese del porto, che io lo avrei capito.
I miei contatti con lui, oltre questo della prima mattina, erano altri due: a una certa ora avanti mezzogiorno e poi nel tardo pomeriggio. Lo sentivo ripassare per il corridoio dicendo "Acqua, acqua". Con un'altra chiavetta, che poi ogni volta doveva riconsegnare anche questa, apriva una specie di tassello quadrato che era nel centro della porta. Il tassello si piegava all'esterno e si fermava, a mensola. Su questa mensola io allungavo la brocchetta dell'acqua; risciacquavo la catinella, la scodella, il bicchiere, tutti oggetti di ferro o di lamiera più o meno incrostati e arrugginiti; gli rendevo la brocca vuota, lui la riempiva ancora, io la ritiravo, e il tassello risaliva, si richiudeva. Se poi nel corridoio non c'era nessuno a vigilare, attraverso quell'apertura, per qualche minuto, ci potevano anche passare l'aria serena del gran mare di Genova, le belle navi, i rumori e le voci del porto, l'odore del pesto e del pesce fritto.
Caro Minnìti! Una delle prime mattine che ero dentro, vedendo che nel rifarmi il letto ne rivoltavo il pagliericcio e un po' lo sbattevo, subito mi fermò con gesti e parole: "No, professore, non faccia così; è peggio; fa della polvere e basta". Aveva ragione, la ragione della lunga esperienza e pazienza. I nodi del crine, i duroni gli spunzoni le piastrelle, mutavano posto da quello che nella notte, giacendo e dormendoci, avevano preso, e la notte successiva davano più noia; bisognava restassero come si erano adattati naturalmente al corpo e ai movimenti della persona, e la cuccia conservasse quegli incavi che tu stesso avevi fatto. Il carcere è il regno della immobilità. Com'è il regno dell'eterno. "Piuttosto" mi disse "chieda che le cambino il cuscino".
Sì, questo mi era veramente e irreparabilmente fastidioso. Era un sacchetto di scarso e ormai consunto e polveroso crine; ma il peggio non era dentro. Fuori, nel centro di un lato, c'era un sette che mano inesperta non crederei mano di donna aveva rammendato alla meglio con groppi o castroni di grosso filo; e su questo non era piacevole appoggiare la faccia né facile prendere sonno. Nell'altro c'era sì anche una larga toppa, e bene aggiustata questa e spianata all'intorno; se non che, per la toppa, doveva essere stato adoperato l'angolo di un lenzuolo o di un asciugamano smesso. Ora si sa che la biancheria del carcere è tutta bollata ai margini dei bolli del carcere; e qui la toppa aveva un bollo su cui l'inchiostro aveva fatto gorgo, e quindi era un cerchio nerissimo che mi pareva sapesse ancora di unto. A voltarmi da quella parte, e solo a vedere con la coda dell'occhio quel cerchio nero, mi dava ossessione. Provai una sera a stenderci sopra un fazzoletto, ma non avendo modo di fermarlo, quello faceva groviglio, scivolava via e la notte non lo ritrovavo più.
Né volevo domandare. Alla quiete del carcere meglio giova non aspettare mai niente, e quindi non domandare mai niente. Se fai una domanda, anche di cosa semplicissima e lecitissima, e anche se a persona gentile e benigna, la domanda per giorni e giorni non sai dove vada, non sai dove viaggi, dove si fermi: cade e affonda silenziosa tra spazi intrastellari; ed è caso o miracolo se in certo momento, vagando nell'ordine cosmico, trovi un punto di attrazione. E allora ritorna, con la cosa domandata o no, dentro la tua cella. Solamente una volta domandai, e questa non era cosa lecita, che mi fosse restituito l'orologio.
Quando uno entra in carcere si sa che alla porta deve lasciare tutto, anche minimissime cose, i gemelli della camicia, le stringhe delle scarpe, la cintola dei calzoni: soprattutto, sé stesso. Questa è in realtà la massima liberazione. Suona l'allarme, ronzano e volteggiano in alto gli aeroplani, e tu non hai l'ansia di cercare salvezza e riparo; sai che la porta è chiusa, che il tuo stare è lì, che il tuo destino è in quel rettangolo breve, e sei tranquillo e paziente. Ti coglie un male o un malessere, non cerchi di sapere che cosa è, non chiedi a medici amici consigli e farmaci, aspetti che passi, il tempo è lungo, se vuole passare. Ebbi uno dei primi giorni un disturbo di depressione cardiaca e scioccamente ne feci avvisare il medico. Mi mandò, dopo tre giorni, alcune cartine di magnesia usta. Ero già guarito: ma sarebbe bastato quello scoppio di ilarità che mi prese a guarirmi. E non aspetti la posta, la lettera desiderata che non arriva, la lettera temuta che arriva, e l'una e l'altra ti tolgono la quiete e il sonno. I pochi fili che anche lì dentro ti possono tuttavia legare al mondo che è di là dalla porta, anche questi, appena entrato, meglio è tagliarli e buttarli via.
Passa il tempo nella sua eternità ferma, pacata, eguale, silenziosa, come un fiume che scorre senza ponti, senza rive, senza case né paesi né genti; come un treno che scivola su rotaie lucide e molli, senza stazioni, e non sai dove né per dove. E ti senti veramente effimero, nato di un giorno, e ti accorgi e capisci che proprio questa è la unica consolazione che gli dèi hanno concesso agli uomini mortali. Bisogna essere in ordine coi morti. Coi vivi non importa. Se i morti sanno, sanno tutto; se non sanno, non sanno niente; e in ogni modo sono senza disperazioni e senza ansie.
Madre, non è vero che tu abbia sofferto o tu soffra a vedermi qui. E ripenso a quel povero volto fustigato che intravidi un mattino presso la cella di fronte alla mia. Mi sorrise un attimo, mentre l'ufficiale delle SS lo ricacciava dentro. Chi si ricorderà domani di quella creatura? C'è un campo dove le sofferenze degli uomini fanno seme e dànno frutto?
Riprendono a volte, improvvisamente, abitudini della vita passata. Ma poi, a poco a poco, si spengono e restano cenere. Domando a Minnìti: "Che ore sono? " "È l'ora della minestra". Naturale risposta in lui. Ma io volevo sapere un numero, il numero dell'orologio, le tre, le quattro, le mezz'ore, i quarti. Perché? Qui le ore del giorno sono la luce dell'alba e quella del tramonto, il rumore dei due uomini che passano col canestro del pane e la caldaia della minestra, il grido del distributore di acqua; e il suono della "conta", due volte di giorno tre volte la notte, e la senti che incomincia dalle celle più lontane e mano mano si avvicina alla tua, e dal suono riconosci ogni volta il battitore chi è, i secondini entrano, battono, ripassano col ferro le spranghe della inferriata, dall'alto al basso, da destra a sinistra, escono, richiudono. Ed è l'ora dell'"aria", quando, se non c'è divieto, puoi scendere le scale e restare all'aperto, benché in un corridoio chiuso anche questo da muri; ma sopra hai il cielo. Per me c'era il divieto, e il divieto era scritto in un cartoncino inchiodato sopra la porta, come per tutti i detenuti prima dell'interrogatorio e del giudizio. Dentro la cella cammini su e giù, giù e su: nove passi lunga era la mia cella, dalla finestra alla porta, compreso della porta anche il vano profondo, e cinque larga. Strana cosa questo senso della porta che permane ostinato contro ogni conoscenza e persuasione: ci vai davanti con l'istinto di aprire, e non puoi. Poi anche questo limite cade, non tenti più la maniglia, ti rivolti, continui il tuo giro.
Conobbi allora il valore delle cose perdute. Una sedia, per appoggiare la schiena o distendere un braccio; un bicchiere di vetro dove il vino ritorni a brillare limpido; una scodella di terra di cui tu veda il fondo liscio e pulito; una lametta di coltello per sbucciare una mela, o per temperare quel pezzetto di lapis che ero riuscito a portare con me. E se fortuna o caso o fantasia o umana gentilezza me ne restituivano alcuna, mi prendeva fino alle lacrime commozione di gioia. Si era accorto Minnìti che io non sapevo come gli altri attaccarmi alla ciotola di ferro e sorbire tutt'insieme il brodo e le erbe e la pasta e il pane che vi erano dentro; e tanto meno sapevo con quel cucchiaio di legno piatto come una spatola. E un giorno mi portò un cucchiaio di legno che aveva fatto lui stesso, bene scavato, e persino, nel manico, con una gentilezza di sigle e di fregi. Ed ecco, un altro giorno, mentre stavo seduto ai piedi del letto nel fondo della cella, sento rumore dietro di me come quando con la chiavetta venivano ad aprire e abbassare la mensola. E nel vuoto dell'apertura vedo entrare dentro non so che. Mi alzo e mi avvicino. E vedo un grosso e stretto rotolo che stenta a passare. Un guanciale era, un guanciale di lana scardassata, e con una federa nuova di canapa salda e fresca; e di là, nel corridoio, la lieta faccia di Minnìti. Così passano i giorni e passano le notti in una quiete quasi beata; e tante piccole cose pareva mi venissero incontro, come quei vaganti nodi del crine, ad aggiustarsi e accomodarsi da sé. Non avevo io anche, presso il capezzale, nella giacchetta appesa a un chiodo, il mio tavolino da notte? C'erano i fiammiferi, un mozzicone di candela, e quella divina cosa che sono i farmaci per l'insonnia. Intanto erano arrivate le rondini. Le udii una sera sul tramonto, nel silenzio che segue gli ultimi schiavaccìi della giornata. Mi aggrappai all'inferriata, mi tirai su fino a portare il volto al di sopra del muro obliquo che chiude la metà inferiore della finestra. E ne vidi una, posata sul comignolo di un camino, con la sua codettina nera, lunga e forcuta. Anche vidi più in là, oltre i tetti del carcere, la cima sottile di un pioppo con le sue foglioline verdi appena nate; e alte sopra il pioppo, ferme nel tenero cielo, due nuvolette bianche, leggere. Primavera di Castelrotto, primavera di Sospirolo, primavera di Padova, lungo il Bacchiglione e il Brenta.
Anche c'era, nella cella accanto alla mia, un curioso ragazzo. Lo conoscevo: un bel ragazzone alto e forte, uno dei partigiani del Bellunese e dell'Agordino. L'avevo veduto arrivare coi piedi legati da una corta catena. Più giorni ne avevo sentito i passi brevi e lo strisciare dei ferri. Ora i ferri glieli avevano tolti. E tutto il giorno stava arrampicato alla finestra col volto nella inferriata. E ogni tanto, come a suo sfogo, dava il grido della montagna: come quando in montagna, per mal tempo o nebbia, si cerca un compagno smarrito o rimasto indietro. Cieli e picchi dell'Alpe, sentieri tagliati nei ghiaioni e nei nevai, spazi grandi, libertà!
La libertà la riebbe, da lui stesso inattesa, con anticipo di un anno, il mio fedele Minnìti. Me lo vedo, una mattina, venirmi dinanzi, dentro la cella. Si era fatto accompagnare da una guardia perché gli aprisse. Mi dice: "Me ne vado, professore, sono libero". Aveva già indosso una sua giacchettina borghese. Io non seppi che rispondere lì per lì, volendo e dovendo, naturalmente, contenere il mio rammarico. Gli misi le mani sulle spalle; guardai la sua faccia di uomo che ora poteva ritornare per le strade del mondo; e lo abbracciai. Caro figliolo. Ogni volta che gli capitava, fuor degli obblighi suoi, di poter passare per il corridoio, si fermava davanti alla mia porta, apriva la spia, un forellino a imbuto sopra la mensola che per aprirlo bastava sollevare, dal di fuori, il dischetto mobile che lo chiudeva, ci metteva prima l'occhio e poi la bocca, e diceva: "Vuole niente, professore?" "Niente, grazie, caro Minnìti". E questa era l'attenzione sua che mi commoveva di più. Una gentilezza così, un saluto così, di quel povero ladro di biciclette, mi parevano ogni volta un dono celeste.
Manara Valgimigli

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