MANARA
VALGIMIGLI E LA LETTERATURA ITALIANA
Sergio Romagnoli (Omaggio a Manara
Valgimigli - Quaderni Valgimigliani n.1 a cura di Vanni Scheiwiller)
[…] Parlando della Gentilezza di Serra (aprile 1946)
raccoglieva questa negazione dell'antico amico: "non è Romagna questa terra di
Beltramelli" e proseguiva "come non sono Romagna, né storia né fantasia né
poesia, i libri di Alfredo Oriani. La Romagna più vera, anche se meno nota, è
proprio il contrario di questa: è quella della intimità recòndita, della
confidenza discreta, della bontà assoluta, dell'amicizia sicura; è quella delle
case ospitali che aprono la porta al viandante senza nemmeno sapere chi è e gli
offrono ristoro e ricovero; è quella dell'antiretorica, dell'antioratoria,
dell'antieloquenza (dice Serra: "non so essere eloquente; né mi piacerebbe"). E
l'anima più veramente romagnola è quella che sa di buona terra, e l'uomo della
terra ne raccoglie una zolla, la sbriciola tra le dita e quasi l'assapora; è
quella che ama adagiarsi, pacata e placida, nelle lunghe alberate distese dei
silenzi vespertini, quando la vecchia madre, finiti anche lei i lavori della
giornata, riagganciato il secchio alla carrucola cigolante del pozzo, si
raccosta piano alla casa e sulla porta, prima di rientrare, tocca e accarezza,
come per prenderne una benedizione, la foglietta dell'erba cedrina. In questa
malinconia laboriosa, civile e virile, è la nostra Romagna. E gli scrittori suoi
che più valgono sono appunto di questo modo e tono: il Pascoli, che è più
romagnolo e domestico dove è più poeta; il mite Severino, carducciano per
giunta; Marino Moretti; e Panzini: classicità perfetta, dice ancora Serra, la
quale è un abito di eleganza e di gentilezza, e nasce dalla modestia degli
uomini bennati, quando aggiungono il più felice effetto col moto più lieve."
Bisogna riaffondare un poco nell'Italia fascista che vezzeggiò Antonio
Beltramelli soprattutto dopo 1'Uomo nuovo del 1923, per capire appieno il
significato di questa pagina tanto diffusamente idilliaca. D'altra parte abbiamo
ancora una volta una proiezione letteraria, dove s'incontrano linee serriane,
pascoliane e panziniane e più queste ultime, direi, che le altre, anche per
quell'indugio, insolito nella prosa del Valgimigli, sulla campagna e sui gesti
campestri, e per quel primato morale che in una visione siffatta viene ad
assumere la vita contadina in quanto depositaria di valori fermi e però mitici e
quasi astorici e quindi bisognosi di una tonalità pittoresca, sentimentale e
minuta che ribadisca la presunta innocenza, l'ingenua condizione di felicità. Vi
manca lo sgomento conservatore e reazionario presente nelle prose del Panzini,
come è assente l'ironia che serpeggia all'ombra della poesia e della narrativa
del Moretti. Si tratta di una Romagna che è difficile accettare in sede critica
poiché si rimane restii a sostenere una correlazione costante tra un paesaggio e
un costume e un'accolta di letterati manifestatisi in modi tanto diversi.
Soprattutto quando quel paesaggio e la sua anima morale non poggiano su una
verità storica, ma su un cedimento sentimentale della memoria, in cui le
immagini s'affacciano ad una ad una e rimpiccioliscono il quadro anziché
ingrandirlo. Quella regione, d'altronde, non è né questo né quello; le due
Romagne sono un'invenzione letteraria.
Importante è che il Valgimigli si giovasse di quell'antitesi per ridisegnare i
contorni di un dolce paese, per ricondurre, cioè, il suo nuovo mito tra le più
vecchie braccia di quel suo primo, accarezzando il ricordo di un Serra
carducciano, recependo indugi d'arte domestica dal pascoliano Moretti, dal
"classico" Panzini. Si spiega allora come gli assenti dal quadro romagnolo del
Valgimigli siano, con non poche ragioni, Antonio Beltramelli, e per più
complesse cause Alfredo Oriani. Il fatto è che egli non capi o non volle capire
l'Oriani e forse giocava il suo ruolo determinante l'antifascismo solido ed
integro. Ma al povero Oriani la camicia nera era stata messa con una certa
prepotenza, complice inerte il figlio Ugo, tanti anni dopo la morte, che fu nel
1909, e Benito Mussolini, con comicità involontaria, lo dichiarò nella
prefazione a Rivolta ideale: "i soliti pedanti che sono incapaci della sintesi e
si perdono troppo spesso nelle analisi, hanno domandato se noi fascisti avessimo
le carte in regola per commemorare il grandissimo Oriani. Il fatto che il figlio
di Alfredo Oriani indossi la camicia nera è la risposta più eloquente che si
possa dare ai nostri avversari di tutti i colori". [...]
[…] Nel "Ricordo di Giuseppe Lipparini" (con la
collaborazione di Manara Valgimigli) è detto: "Più cose intanto, in quegli anni
tra l'ultimo Ottocento e il primissimo Novecento, erano mutate… La sera, al
caffè San Pietro, teneva cattedra di anticarduccianesimo, in costume da
ciclista, il così detto solitario del Cardello; e se le cattedre professorali
sono sempre brutte, bruttissima era quella con tutto quel pettegolume effimero e
con tutti quei dannunzianini giovani, anzi 'giovini', che ascoltavano e
applaudivano". E poi, diciamo la verità, al Valgimigli uomo non era forse
riuscito mai di dimenticare la provocazione antidemocratica del nascente
nazionalismo orianesco. Quando il solitario del Cardello già s'offendeva con
l'Italia tutta che non lo ascoltava come avrebbe preteso lui e s'avviava a
soffrire di quella "celebrità senza popolarità", di quella "rinomanza senza
gloria" come disse il Borgese dopo aver già pubblicato il suo più bel libro
politico, Fino a Dogali, del 1889, e la ponderosa opera su La lotta politica in
Italia, del 1892, Manara, nel 1894, era al suo primo anno d'Università, proprio
lì a Bologna, a quattro passi da Casola Valsenio: ed "eravamo tutti, come si
diceva, sovversivi: socialisti, repubblicani, e qualche anarchico; e ogni sera,
al caffè Ugo Bassi, presso l'Arena del Sole, con la tenue spesa di centesimi
dieci o quindici per un caffè col mistrà o senza, rovesciavamo un ministero e
fondavamo una repubblica". Tre anni dopo ci sarà la spedizione di Domokos (1897)
dove per poco non andava anche il giovanetto Manara a combattere per la libertà
della Grecia. Si noti ancora com'è ingannevole la facilità della prosa del
Valgimigli, che scorre via lieta del suo rammemorare ed evocare, e che è fitta,
tuttavia, di impliciti riferimenti di non agevole accesso a chi quei tempi li
conosca ormai di lontano: l'anticarduccianesimo dell'Oriani, ad esempio, tanto
risonante ed irritante allora nella cerchia bolognese ("ero l'avversario ignoto
di Carducci", dirà in una lettera del 7 settembre 1908) ed oggi veramente quasi
dimenticato o considerato irrilevante nella storia della sua fortuna critica: le
diatribe di caffè tra primi dannunziani e fedeli carducciani, con quel
"giovini", che fu stilema caro al futuro solitario di Gardone, messo lì come
ultima ironia: e, infine, i caffè antagonisti, il popolano e studentesco caffè
Ugo Bassi nei pressi di quell'Arena del Sole che ospitava il teatro di prosa,
qui opposto al caffè San Pietro accanto all'omonima metropolitana, convegno
della borghesia elegante ed intellettuale, quel medesimo caffè ai cui tavolini,
partendo dal prediletto caffè Nazionale presso le Due Torri, andava a vendere in
anni più tardi i suoi Canti Orfici l'altro montanaro dell'Appennino, Dino
Campana.
[...]
Sergio Romagnoli
|