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Manara Valgimigli

 

|Manara Valgimigli |

   

|40° anniversario |

   

| Rassegna stampa |

   

| Convegno  maggio '76 |

   

| Convegno agosto 1970 |

   

| Il Mantello di Cebète |

   

| Valgimigli e Carducci |

   

| Valgimigli e la letteratura |

   

| Giorgio Valgimigli |

 
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CONVEGNO 29-30 AGOSTO 1970
SALUTO DEL SINDACO DI VILMINORE

Egregi Congressisti,
Signore, Signori,
questa austera aula, che ospitò le popolari assemblee della Libera Comunità di Scalve, e che ascoltò i consessi dei Reggitori della pubblica cosa, non accolse mai una così eletta schiera di studiosi come quella che oggi qui si riunisce per approfondire, con il devoto amore degli amici e con l'ammirata venerazione dei discepoli, la conoscenza delle qualità umane ed artistiche di Manara Valgimigli. Vilminore, che si onora di averlo ospitato negli ultimi anni della Sua esistenza, ricorda che Lui stesso amò definirsi "l'umile vilminorese" e, riconoscente dell'omaggio che intendete offrire alla sua memoria, vi porge, mio tramite, il più cordiale benvenuto ed il più vivo augurio per il successo dei lavori che state per incominciare.
Dott. Ing. Andrea Bonicelli

SALUTO DEL PRESIDENTE DELLA PRO LOCO DI VILMINORE

Nel predisporre il programma delle manifestazioni per la stagione estiva 1970, tra quelle a carattere culturale la Pro Loco ha volutamente inserito questo Seminario di studi per commemorare e per onorare Manara Valgimigli nel quinto anniversario della morte, avvenuta a Vilminore, nella villa Erse, il 28 agosto 1965.
Da diversi anni l'insigne studioso, soleva passare le sue vacanze estive qui, ed era solito, nelle sue brevi passeggiate, intrattenersi con le persone più umili, con le quali conversava volentieri. Ed è forse per questo stare con i più umili che, in una dedica scritta sul libro che gli valse il Premio Viareggio 1964, donato alla Biblioteca Comunale, ebbe a definirsi "l'umile vilminorese".
In questo Seminario di studi sentiremo parlare di Manara Valgimigli maestro di scuola, di Manara Valgimigli filologo, del discepolo del Carducci, del critico della Letteratura italiana, dell'interprete dei lirici greci, di Platone, e dell'autore delle lettere alla figlia Erse, ma i cittadini di Vilminore lo ricordano soprattutto per la sua umiltà, perché, pur sapendolo un uomo di alta levatura culturale, non avevano alcuna soggezione a conversare con lui, seduti al tavolino di un bar o lungo la via a lui oggi intitolata.
Qui, in questa sede, lo onoriamo attraverso i suoi insegnamenti, le sue traduzioni, i suoi saggi; l'uomo della strada lo ricorda col suo cappello a larghe falde o con il suo baschetto in testa scendere dalla villa Erse, soffermato a riaccendere il suo sigaro, attraversare il paese, fino al chiosco dei giornali. Così, in questi modi, Vilminore commemora Manara Valgimigli.
Prima di dare inizio ai lavori, sento il dovere, a nome anche della Associazione che rappresento, di ringraziare il professor Giorgio Valgimigli per la fattiva collaborazione data nell'organizzazione e nella preparazione del Seminario; voglio inoltre porgere i più vivi ringraziamenti al poeta Diego Valeri; ai professori Iginio De Luca, Maria Vittoria Ghezzo, Marcello Gigante, Lento Goffi, Antonio Maddalena e Sergio Romagnoli per avere gentilmente aderito a questo Seminario; alla Stampa qui presente ed infine un grazie a tutti Voi, Signori Congressisti, per l'onore che ci avete concesso nell'intervenire ad onorare e commemorare con noi l'insigne studioso.
L'ospitalità e la cordialità, tipiche di Vilminore, con le quali sarete circondati in questi due giorni, spero suppliscano a quelle eventuali deficienze che, forse, potreste riscontrare nell'organizzazione o nella recettività. Il nostro non è un grande centro turistico, anche se circondato da bellezze naturali che tale lo potrebbero far credere; abbiamo, in compenso, delle tradizioni storiche e culturali. Sono certo che Vi troverete a vostro agio. Grazie.
Fortunato Schiantarelli

PAROLE DETTE DA DIEGO VALERI IN VILMINORE DI SCALVE IL 29 AGOSTO 1970, DOPO LA LETTURA DI UN TELEGRAMMA DI OLGA E GIACOMO DEVOTO.

Ringrazio gli amici che mi hanno invitato a questa bella manifestazione, che non vorrei qualificare "commemorazione" (commemorazione di un grande amico perduto), bensi "festa dell'amicizia". Sono venuto quassù a testimoniare, come voi tutti, dell'alto valore intellettuale e morale del nostro, nostrissimo, Valgimigli. Sarò dunque il ludimagister di questa festa; alla quale, benché non abbia ricevuto deleghe particolari, penso di potere, anzi dovere, associare l'Istituto Veneto di Scienze Lettere Arti, l'Accademia Patavina e l'Accademia dei Lincei. Sul nome di Manara Valgimigli non può non esservi accordo tra tutti gli uomini di cultura del nostro Paese.
Eccomi dunque a parlare qui, tra amici, dell'indimenticato e indimenticabile amico di tanti anni della mia vita. Ne parlerò, così come viene, valendomi dei miei ricordi personali, dei dati della mia esperienza di vita vissuta in comune con lui. Sarà per me come un recupero del tempo perduto; e voi vorrete scusarmi se sarò costretto a adoperare qualche volta il pronome di prima persona singolare: Manara ora vive soltanto in noi, non può parlare che per la nostra bocca.
Manara Valgimigli venne a Padova nel 1926, contemporaneamente a me ch'ebbi in quell'anno l'incarico per la letteratura francese. Io avevo la mia residenza a Venezia, e a Venezia continuai ad abitare, facendo, tre volte la settimana, la spola con Padova; così vedevo Manara all'Università, o per strada, o (un po' più tardi) a casa sua: nella sua prima casa padovana, di via Giordano Bruno. Non ci fu bisogno di approcci preparatori al nostro intimo incontro, al nascere della nostra amicizia. Manara era un uomo schietto, limpido, trasparente: si mostrava subito, e poi sempre, tale quale era. Aveva, anche lui, le sue suscettibilità, una certa irascibilità di superficie, che vorrei dire di tipo carducciano. Erano i difettucci o vizietti di temperamento che facevano, non dico contrasto, bensì umano completamento alle sue grandi qualità.
Furono molti gli anni di vita comune: comune nel senso profondo della parola, avendo noi un medesimo amore, un eguale culto della libertà civile e della letteratura, non tanto come scienza, quanto come poesia. A favorire la nostra intesa cordiale a rendere più intenso il nostro reciproco scambio di sentimenti e pensieri, si aggiunse l'affezione comune per il luogo del nostro incontro, quella Padova ch'è poi il luogo della mia infanzia e fanciullezza e giovinezza prima, e ch'egli, Manara, ebbe subito cara e che gli piacque chiamare con uno dei suoi umoreschi vezzeggiativi "la mia Padovina".
Quando, nell'autunno del '26, egli venne tra noi, io avevo letto, di suo, alcune delle sue traduzioni da Platone e parecchi articoli sui problemi attuali della scuola. Tanto mi era bastato a cogliere in ogni sua pagina il suo senso artistico, il suo gusto della parola come espressione e come suono, come anima e carne. Egli era infatti e innanzi tutto un artista della parola, un poeta. La filologia, egli la rivestiva come un'armatura; ma la poesia, la portava, egli stesso, dentro di sé, nell'anima. Dirò meglio: la filologia era il suo pane di tutti i giorni; mentre la poesia era il suo "pan degli angeli": suo, e di chi l'ascoltava o lo leggeva... Ricordo di averlo più e più volte scoperto, uscendo di scuola, in atteggiamento quasi di mortificazione e di corruccio con se stesso. Che cos'era avvenuto? Semplicemente questo: la lezione non gli era riuscita come avrebbe voluto; la lezione, che per lui doveva essere creata, nascere, come un'opera d'arte. Egli aveva davvero, anche come maestro in cattedra, le perplessità, le scontentezze dell'artista; e apertamente le confessava nelle conversazioni amichevoli. Dico conversazioni, e non discussioni, perché tra noi l'accordo fu sempre perfetto, su tutti i problemi di fondo; sicché non ci fu mai bisogno di discutere. Su un punto, forse, si sarebbe potuto dissentire: sulla valutazione del Carducci, che per lui era un poeta assoluto e per me era ed è il poeta di alcune bellissime liriche di carattere intimo e di qualche mirabile evocazione storica. Ma quel punto io non lo toccai mai, preso com'ero dal rispetto per quella sua fedeltà appassionata al maestro della sua giovinezza. E, dacché ci sono, dirò anche questo: che, avendo io citato una volta, in un articolo, lo stupendo "Mezzogiorno alpino" di "Rime e ritmi" ("...sola garrisce in picciol suon di cetra / l'acqua che tenue tra i sassi fluì"), vidi il mio amico raggiare di letizia, perché finalmente ci si trovava d'accordo su quel punto delicato e taciuto tra noi.
Le nostre conversazioni, quasi non occorre dirlo, erano continue. erano una sola conversazione, intramezzata da qualche colazione in casa Valgimigli, nella bella casa, ora, di via Gregorio Barbarigo. A quelle colazioni, che si ripetevano assai spesso, dato ch'io a Padova ero fuori di casa, e che, da un certo tempo in poi (diciamo dal '30), ci capitava volentieri un amico di Manara e mio ch'ebbe un gran peso nella nostra vita e anche nelle nostre vite, Pietro Pancrazi; a quelle colazioni, dicevo, presiedeva silenziosamente la signora Emilia "la dolce creatura", come nei suoi scritti di memoria la chiama Manara, mentre la dolcissima Erse dava luce alla stanza col suo splendido e malinconico sorriso. (Giorgio era presente anche lui, beninteso; ma ancora in ruolo di bocia che non ha diritto di parlare tra i grandi).
Questo, che io sono venuto " suggerendo " agli amici qui presenti, è manifestamente soltanto un Manara familiare; un Manara che non vorrei tuttavia distinguere come minore da quello che, anche dopo la morte, vive intero nelle sue amate e sudate carte. Manara era uno, nella vita e in letteratura, e uno resta nel ricordo degli amici e nell'opera scritta e stampata. Non c'è dunque bisogno di mutar registro per dire ora qualcosa (accennare appena, anche per non invadere il terreno dei relatori di questo convegno) sullo studioso, sullo scrittore, su quello che sinteticamente dicevo il poeta. Lo studioso fu soprattutto un grande lettore di testi: lettore che, per illuminare il suo testo, s'industria di chiarirne le strutture, i sensi o significati, e i valori propriamente poetici. Si pensi al commento dell'Odissea, in cui Manara non perde mai di vista, appunto, la poesia, e perciò dà alle notizie "storiche" e ai rilievi "grammaticali" il posto subordinato che meritano. E si noti che il vivo, lucidissimo commento opera su una traduzione artisticamente modesta. Valgimigli, le traduzioni avrebbe dovuto farsele tutte da sé. Quelle che fece restano infatti a dimostrare come si possano portare in altra lingua nella nostra tutte le virtù icastiche e musicali della lingua greca e dei poeti di Grecia. Naturalmente tra questi poeti, dico tra quelli tradotti da Valgimigli, collocherei al primo posto Platone... Io, purtroppo, ho perduto per via quasi tutto il mio greco: il greco che fu la delizia dei miei anni giovanili. Ma devo pur dire che leggendo e rileggendo, anche di recente, il Platone di Valgimigli, sempre ho risentito quella delizia: quella specie di lucida ebrezza, di rapimento fantastico di qua e di là dal razionale, provata una volta sui banchi del liceo. Le traduzioni di Valgimigli (e penso ora a quelle da Saffo, da Archiloco) alle quali resto fedele nonostante i felici risultati di qualche tentativo "modernistico" ci danno l'impressione di attingere al testo originale, senza mediazione. Sono piccoli miracoli (piccoli e grandi insieme) di poesia, e ci confermano nella certezza che la più profonda natura di Manara era quella di poeta. Non c'è, del resto, un suo libro ch'è tutto suo, dove sono rarissimi i diretti richiami culturali, dove egli trae la sua ispirazione dal suo animo e non d'altronde? Alludo, come già tutti hanno intuito, al Mantello di Cebete; sul quale, non essendo esso previsto come oggetto di particolare relazione, penso di potere richiamare un poco la vostra attenzione.
Questo libro, che io ho visto formarsi quasi giorno per giorno è per me il monumentum vivo della nostra amicizia viva. E non nasconderò che sono orgoglioso di comparire due volte nel caro libro, come traduttore di una lirica di Hölderlin amatissima da Manara e come dedicatario del più bel racconto della silloge Minniti (Minniti, sapete, è il ladruncolo che fa qualche umile servizio al " professore ", durante la detenzione di questi, prigioniero politico di riguardo, nelle carceri di Belluno). C'è un passo di questo libro, a cui io torno spesso, perché mi pare che in esso batta il cuore gentile e forte di Manara.
Mi sia permesso di sottolineare una frase, che per me ha un senso profondo e, per così dire, totale nella vicenda interiore, nel dramma d'anima di Valgimigli; queste poche parole: "essere d'accordo coi morti". È, scopertamente, un ricordo dell'Antigone sofoclea, ma è anche il succo di tutta la dolorosa, la tragica esperienza umana, di padre, del nostro amico. Questa è una pagina a cui, come diceva Pancrazi a proposito di molte pagine, si può dare appuntamento tra cent'anni. A questo giudizio di Pancrazi (perché si tratta di un giudizio vero e proprio anche se in forma di battuta), penso che siamo tutti pronti a sottoscrivere; per il Mantello di Cebete e per tante altre cose uscite dalla sua penna d'oro.
Diego Valeri

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