Articolo tratto da "La Rivista di Bergamo" luglio 2001
La Diga del Gleno
Un museo per non dimenticare
di Anselmo Agoni

Sono ormai trascorsi ottant'anni da quel tragico 1 dicembre 1923; stava nascendo il giorno, quando la tragedia sconvolse la Valle di Scalve. In circa mezz'ora, sei milioni di metri cubi d'acqua, mista a fango e detriti, precipitarono dal bacino della Valle del Gleno, a circa 1500 metri di quota, fino al lago d'Iseo, spazzando via tutto ciò che questa immensa fiumana incontrò sul suo cammino.
Sassi enormi vennero strappati dalla furia dell'acqua, questi si mischiarono ai tronchi d'albero e quando raggiunsero i centri abitati rasero al suolo case, chiese, stabilimenti, forni fusori e quant'altro l'uomo aveva costruito sulle sponde del fiume.
La grande diga era crollata, e con essa erano caduti addosso alle povere genti della montagna bergamasca e bresciana la miseria, la disperazione per aver perso tutto ciò che avevano e il lutto che le circa cinquecento vittime di tale disastro aveva causato; era da poco terminata la Prima Guerra Mondiale, ed una nazione vincitrice ma sconfitta economicamente doveva faticosamente rimettersi in piedi. Il lavoro era l'eterno problema che nei primi anni del secolo aveva spinto milioni di italiani ad emigrare; ecco quindi che questa diga, questo grande cantiere, rappresentava per l'economia locale una enorme risorsa. I progetti erano molto ambiziosi, la Valle di Scalve doveva diventare la principale fonte di energia di tutta la Lombardia e forse d'Italia.
Negli intendimenti della ditta Galeazzo Viganò, concessionaria dello sfruttamento delle acque del torrente Gleno, c'erano la costruzione di una serie di dighe (Gleno, Nona, Vò, Gaffione, Venerorolo) e di numerose centrali idroelettriche per lo sfruttamento, oltre che dell'enorme massa d'acqua presente nel bacino imbrifero della Valle di Scalve, anche dei notevoli dislivelli che questa doveva superare per raggiungere il fondo valle. Tutto era nato dalla necessità di procurarsi energia elettrica per i propri stabilimenti cotonieri di Ponte Albiate in Brianza; così nel 1916 la Fraterna Viganò acquistò dall'ingegner Giuseppe Gmiir di Bergamo la concessione di derivazione del fiume Nembo (sponda sinistra) e del Povo (sponda destra) di 250 litri d'acqua al secondo.
Elaborato negli anni successivi, il progetto dello sbarramento passò da diga a gravità o pesantore, ad archi multipli, realizzando così l'unica diga al mondo costruita abbinando le due tecniche. La progettazione, anziché precedere la costruzione delle opere, spesso la seguiva, o per lo meno veniva approvata dopo che i lavori erano già in avanzato stato di esecuzione. Col passare degli anni, i costruttori si erano resi conto che andavano incontro ad una spesa enorme e che per poterla recuperare dovevano modificare la portata del loro progetto. L'energia elettrica prodotta doveva essere anche venduta, e non soltanto utilizzata per uso proprio, così l'invaso del lago passò dagli originari tre milioni e novecentomila metri cubi a sei milioni di metri cubi. La zona della costruzione era impervia, la si raggiungeva da Pianezza o da Bueggio tramite mulattiera.
Furono costruiti nuovi sentieri, teleferiche per il trasporto dei materiali e condotte forzate per portare l'acqua alle due centrali di Bueggio e di Povo, anch'esse costruite dalla ditta Viganò.
Mano a mano che la diga saliva, il lago la seguiva e con una barchetta gli operai turavano con il catrame le numerose infiltrazioni d'acqua, che aumentavano sempre di più, tanto da aver bisogno di un proprio canale di raccolta. Arrivato l'ottobre del 1923 la diga era pressoché ultimata, ed a causa delle forti piogge di quei giorni si riempì per la prima volta interamente.
Alla sua estremità destra aveva delle aperture o sfioratori per il troppo pieno, e da essi fuoriuscivano in quei giorni circa dodici metri cubi d'acqua al secondo. La preoccupazione per le piogge continue e per le forti perdite fece salire al Gleno l'ingegnere capo del Genio Civile Lombardi ed il suo collega Conti.
Quando la mattina del lo dicembre gli operai si apprestavano ad andare al cantiere della Galleria di Bellavalle, il guardiano Morzenti stava aprendo la saracinesca che dosava l'acqua di mandata alla centrale di Bueggio, un'operazione di routine, ordinata telefonicamente dalla centrale. Ad un tratto, mentre era di ritorno, passando sulla passerella che fronteggiava la diga, il guardiano intuì che qualcosa non andava.
Dei sassi cominciarono a cadergli davanti, e la passerella sussultò.
Cercando di raggiungere uno sperone roccioso fu sospinto da un urto. La diga si stava squarciando, lasciando fuoriuscire l'enorme massa d'acqua in essa contenuta; il tutto, secondo la testimonianza resa dal Morzenti, durò 12/15 minuti.
Il processo che ne seguì si tenne dal gennaio 1924 al luglio 1927; alla Fraterna Viganò vennero sequestrati i beni, ed utilizzati per tacitare le parti lese; se i circa trecento danneggiati privati vennero risarciti e tacitati direttamente dai Viganò, più difficile risultò accordarsi con gli industriali. Essi, oltre ai danni materiali, volevano mettere le mani anche sull'impianto del Gleno.
La sentenza che condannò Virgilio Viganò ed il progettista ingegner Gio. Battista Santangelo al risarcimento danni e a due anni di reclusione (poi condonati) parve ai più una manipolazione del regime; riguardata oggi con più distacco ed imparzialità sembra sì una manipolazione, ma non del tutto a vantaggio degli imputati.
Se, come alcuni scrissero, "il regime stette dalla parte dei ricchi", fra questi non rientrò certamente il Viganò, al quale, dopo la tragedia, fu portato via tutto. Sopravvisse al processo un anno e mezzo, poi un'emorragia cerebrale lo stroncò a 47 anni.
La sua difesa si basava sulla tesi del Colonnello Cugini, esperto in esplosivi, secondo la quale il crollo della diga era da attribuirsi ad un attentato dinamitardo (nei giorni della tragedia erano stati sottratti dal deposito esplosivi circa 75 chili di dinamite); essa era avvalorata anche dalla spontanea deposizione di un detenuto, che dichiarava di essere stato in cella con un "sovversivo", in carcere per aver attentato alla centrale di Edolo, ed intenzionato a far saltare la diga per "fargliela pagare ai fascisti di Darfo".
Ecco dunque che, per quanto possa essere stato manipolato a scopi e fini politici, il processo non prese mai una strada strettamente politica, perché, a ben guardare, il regime avrebbe avuto tutto l'interesse a scaricare su fantomatici elementi anarchici e sovversivi la colpa di un attentato. Invece, probabilmente a causa delle forti pressioni degli industriali danneggiati, questa tesi non fu presa in considerazione. Oltre al risarcimento danni, ai vari industriali fu concessa anche l'esenzione dalle tasse per 30 anni! Fu una storia affascinante e tragica allo stesso tempo, simile a tante storie di quell'epoca, Titanic, Zeppellin, ecc., in cui l'uomo volle domare la natura ed i suoi elementi, lasciando sul campo un enorme tributo di vite umane. Da alcune lettere scritte in valle dal Viganò dopo il crollo, emerge una figura di uomo diversa da quella idealizzata dall'opinione pubblica. Fu probabilmente la cinquecentounesima vittima del disastro, come un capitano che affonda con la sua nave.
Pagò anche per molte colpe di altri, vedi ad esempio il mancato controllo da parte del Genio forti Oltre Civile sull'andamento dei lavori, ed a proposito di essi l'assoluzione dell'esecutore materiale che, come rilevato dalle deposizioni dei testimoni, erano eseguiti male ed in economia, contro le disposizioni del progettista ed all'insaputa del Viganò. Si dice che addirittura c'era chi avvisava al cantiere quando stava per salire il proprietario, così da mascherare le innumerevoli manchevolezze che giornalmente caratterizzavano l'andamento dei lavori.
Quello che resta oggi di questo dramma è una serie di piloni che svettano come dita verso il cielo, visitati ogni settimana da centinaia di persone.
Un'enorme forza evocatrice viene sprigionata dai resti della diga, lasciando chi li visita per la prima volta a bocca aperta.
E' senz'altro una meta di sicuro interesse turistico e culturale per tutte le età, che meriterebbe di essere valorizzata.
Una mostra sul processo, ricca di documenti originali, fotografie e progetti, si svolgerà nel mese di novembre presso l'archivio di Stato di Bergamo, con l'intendimento di sollecitare gli enti pubblici a prendere in considerazione l'idea di un museo permanente su questa tragedia. Perché gli errori del passato siano di monito per il futuro, per non dimenticare e, perché no, anche perché la diga riprenda il ruolo e la funzione per cui fu costruita: produrre energia, benessere, posti di lavoro.

www.scalve.it