75
anni fa il disastro del Gleno
“Il dolore resterà nei secoli”
L’Arciprete
di Vilminore don Bortolo Bettoni scriveva le parole del titolo nel Chronicon
parrocchiale, quel primo dicembre 1923.
Sono passati tanti anni e la storia non si è districata granchè: “Imperizia,
incoscienza e superbia umana”. Queste le cause indicate dall’Arciprete del
tempo. Ma di chi? “La vera storia solo l’avvenire saprà narrare”,
aggiungeva. Ma dopo tanto tempo invece si fatica ancora a raccontare, a indicare
le responsabilità. La lettura della storia dovrebbe insegnare, così ci hanno
sempre detto. O si deve davvero affrontarla solo “per i problemi che ci ha
lasciato” come ha scritto qualcuno in questi mesi, sull’onda di un dibattito
vivace sulla lontana guerra di Spagna? Era una mattina come tante altre, quella
che cominciava, in quel 1 dicembre del 1923. Era nevicato e piovuto molto, i
ragazzi preparavano i quaderni per andare a scuola e in cucina finivano di
mangiare qualcosa. La Messa era finita, la giornata cominciava. Erano passate le
sette del mattino da poco.
Certo, c’era la novità che lassù, nella valle, c’era una diga che
“faceva acqua da tutte le parti”. Qualcuno, a Dezzo, era andato via di casa,
andava a dormire a S. Andrea. Lo dicevano tutti che quella diga sarebbe venuta
giù.
Dei ragazzi, andati su a guardarla nei giorni precedenti il disastro: “Nel
pomeriggio del 10 novembre siamo saliti alla diga, a piedi nudi. C’erano 10 cm
di neve, piangevamo per il freddo, ma dovevamo andare per legna e i pezzi di
armatura facevano comodo. Quando ci siamo trovati sotto la diga faceva paura.
L’acqua usciva da tutte le parti della muraglia” (Fermo Bianchi - Bueggio).
“Mio marito che lavorava su alla diga diceva che per forza di cose sarebbe
caduta perchè il cemento invece di usarlo per la malta, andava da altre
parti” (Maria Rodigari Barzesto).
“Gli operai più volte avevano detto al Viganò che la diga non poteva reggere
perché facevano impiastri: qui a Vilminore c’era un impiegato di Milano che,
quando il Viganò partiva per andare alla diga, telefonava agli impresari e così
coprivano gli imbrogli. La colpa è anche degli ingegneri del Genio civile:
quando hanno fatto il collaudo, la diga perdeva acqua da ogni parte ” (Angelo
Romelli - Meto).
“Quando mia madre andò da mia sorella a Dezzo, la vigilia del disastro,
trovandola pallida, le chiese cosa avesse e si sentì dire che la gente del
paese temeva due calamità: la caduta della diga e la caduta di un enorme masso
che sovrastava il paese.
Tutti parlavano ma nessuno faceva qualcosa: non sembrava possibile che gli
ingegneri potessero sbagliare” (Angelo Piantoni - Dezzo).
“La sera prima nostro fratello che lavorava in centrale, sopra il Dezzo, aveva
detto a sua moglie che era preoccupato perchè il bacino perdeva acqua. Fa
paura, diceva” (Maddalena e Margherita Morelli - Azzone).
Quel sabato mattino del 1 dicembre 1923 “Dio pagò di sabato” per tutte le
ruberie, imperizie e forse perfino per la “superbia” di quegli ingegneri. O
si può davvero credere all’ipotesi di una scossa di terremoto? “La diga era
progettata in muratura di calce idraulica (...) il pelo di massimo invaso era
previsto a quota 1548 creando un serbatoio di circa 5 milioni di metri cubi di
acqua (...) la ditta Viganò, nel luglio 1919, iniziava gli scavi (...) veniva
fatto uso di pietrame in grossi massi ricavati sul posto (...) la sabbia veniva
ottenuta da cave aperte sulle pendici e veniva lavata con abbondante acqua
derivata dal torrente (...) la calce era ottenuta mediante un forno fatto
costruire appositamente in località Valbona, vicino alla stazione di partenza
della teleferica destinata ai lavori della diga (...). Nel settembre 1920
l’ing. Santangelo propose l’abbandono del progetto di diga a gravità per
sostituirlo col tipo di archi multipli e il progetto fu proposto e discusso con
gli ingegneri del Genio Civile (...). Nell’estate del 1921 tutti i dettagli
del progetto furono elaborati e approntati e nel febbraio 1922 furono presentati
all’ufficio di Bergamo del Genio Civile” (dallo studio redatto dai tecnici
della ditta Viganò dopo il disastro e presentato il 30 ottobre 1924).
L’idea era nata nel 1916 quando la ditta “Galeazzo Viganò”,
“consumatrice di alcune migliaia di cavalli di forza, che acquistava dalla
Società Anonima per Imprese Elettriche Conti” per gli stabilimenti cotonieri,
valutò il progetto di procurarsi in proprio l’energia motrice di cui aveva
bisogno. Rilevò quindi una concessione per l’utilizzo delle acque del
torrente Povo, nella valle del Gleno, concessione risalente al 1907. Nel 1917
cominciano i lavori di preparazione, diretti da Michelangelo Viganò, che morì
poco dopo, nell’ottobre 1918. Gli subentrò nella direzione dei lavori il
fratello Virgilio, che si accasò a Vilminore, dove fece costruire una villa,
oggi di proprietà comunale e oggetto di un progetto di recupero, con
destinazione scolastica. Il progetto iniziale si allargò fino a prevedere una
diga che di 60 milioni di chilowattora.
In un primo momento i lavori procedettero a serbatoio vuoto. Ma nell’autunno
1922 si lasciò riempire la diga parzialmente “per fare cosa giovevole alla
stabilità dell’opera, la quale gradatamente caricata poteva subire benefici
assestamenti prima di ricevere il carico completo (...) comunque alla fine
dell’inverno 1922-23 il lago venne vuotato: venne eseguita una minuziosa
visita al paramento a monte e nulla venne constatato di anormale (...). Il 21
ottobre 1923 arrivarono a Vilminore gli ingegneri Lombardi e Sassi del Genio
Civile, per visitare i lavori. L’indomani essi dovettero rimanere in paese
perché pioveva abbondantemente, tanto che il lago era cresciuto fino a quota
1548,20”.
E che l’acqua salisse con il procedere dei lavori lo ricorda anche un ragazzo
di allora, che alla diga lavorava: “Raccoglievo sassi per il frantoio e
seguivo il vagoncino che portava il materiale alle arcate della diga, ma avevo
paura perché le rotaie correvano sopra il vuoto e sotto c’era l’acqua che
cresceva e le rotaie ballavano sull’impalcatura (...). Nelle arcate mettevano
il bitume, mentre quello che non riuscivo a capire era la roba che mettevano nei
piloni; lì mettevano di tutto” (Severino Piantoni - Teveno).
Cosa potevano fare di male 20 cm in più di acqua, sia pure moltiplicati per
tutta la distesa del lago? Il 23 ottobre gli ingegneri salgono, si allarmano
appena un poco per quella quota irregolare di acqua nel serbatoio, ma poi
finiscono per dire che non c’è niente di anormale.
Il “serbatoio” rimase pieno, traboccante, per 46 giorni. Dopo quel
sopralluogo del 23 ottobre non ci sono altre ispezioni. Lo testimonia anche il
guardiano della diga che aggiunge: “Il giorno prima del disastro, l’ing.
Conti mi chiese se avevano messo le tavole agli sfioratori per otturarli e per
ordine suo andai a verificare: gli operai avevano eseguito l’ordine”.
Lo stesso guardiano verso le sette del mattino di quel sabato maledetto passando
sulla passerella di legno che attraversa la valle davanti alla diga sente una
scossa, senza rumore mentre dall’alto cade un sasso.
Sembra una scena irreale, come premessa al disastro. Il guardiano, nella mattina
buia, accende un fiammifero e vede una crepa che si allarga salendo. Scappa a
dare l’allarme, passa giusto a tempo dietro lo sperone di roccia e dietro si
scatena l’uragano. Si volta e vede il pilone dove aveva osservato la crepa
aprirsi “...e gli archi lo seguivano. L’acqua irruppe violenta al punto che
non toccava la roccia per un lungo tratto e faceva buio sotto di essa ”
(Francesco Morzenti in “Il disastro del Gleno” di G. S. Pedersoli 1973).
Bueggio stava lì sotto: “Alla sette del mattino ho sentito del vento, sono
andato sulla strada e l’ho visto arrivare.
Non si vedeva acqua, ma una cosa nera, tutto fumo nero. E’ passato di corsa
mio zio: è la diga, mi ha detto.
Sono entrato in casa, ho gridato alla mamma che ha preso il bambino (avevo un
fratellino piccolo) dalla culla. Pensavamo di uscire e scappare su per i prati,
ma la porta non si apriva più, forse il vento, il fango. Siamo fuggiti in
solaio.
Quando dopo tanto siamo scesi, c’erano due metri di fango contro la porta e le
fìnestre. Uno sfacelo. A Bueggio ci sono stati una decina di morti, la maggior
parte della gente è riuscita a scappare. C’era il sagrestano sul campanile,
stava ricaricando l’orologio della torre campanaria. II campanile è andato
avanti dritto in piedi per un pò e poi è crollato. In chiesa c’erano ancora
due persone: sono state portate via con l’edificio. Il parroco si è salvato:
era coperto di fango e non si capiva più se era un uomo o cosa. La chiesa prima
di essere travolta si è spaccata in due tronconi, per lo spostamento
d’aria” (Fermo Bianchi - Bueggio).
A Vilminore si sente il vento arrivare. “Mia sorella Marina stava scopando
vicino all’orto, quando mi gridò di ascoltare un rumore. I vestiti ci si
bagnarono senza motivo, l’umidità dell’aria, pensammo che si fosse rotto il
canale lì vicino che portava al bacino di S. Maria. Siamo scese in cortile. In
quel momento esce la segretaria del Viganò. Quando le abbiamo spiegato la
nostra paura è rientrata a chiamare Casati, Viganò e gli altri. Siamo scese da
una stradina per vedere nella valle, si vedeva come una montagna nera e non si
capiva cosa fosse. Prima che l’acqua arrivasse le piante si spianavano. A un
tratto abbiamo visto un grande bagliore: erano le centrali che bruciavano. Il
Viganò si era allungato per terra e batteva la testa sui sassi. Gridavano e
piangevano tutti” (Cati Bonicelli - Vilminore).
“Passate le case delle Fucine ho guardato più in basso e ho fatto in tempo a
vedere il fiume di acqua che portava via il santuario della Madonnina. Subito
dopo si sono alzate le fiamme, altissime, che a me sono sembrate alte come la
Presolana: l’acqua era arrivata alla centrale o al forno fusorio del Dezzo.
Un uomo passava di lì correndo e mi ha gridato di tornare indietro perché era
scesa la diga” (Carlo Pedrini - Sant’Andrea).
“Ero a letto ammalato, al primo piano di questa casa e non avevo sentito
niente. Sono venuti su a prendermi e mi hanno portato in una casa più in alto.
Queste case si sono salvate per puro caso perché la fiumana è stata deviata
verso l’altra sponda dal masso che c’è qui davanti” (Giovanni Allegris -
Dezzo).
A Dezzo la disperazione aveva inebetito i superstiti. Gente che si rotolava nel
fango o, nei giorni seguenti, girava inebetita, alcuni si ubriacavano per
dimenticare, si piangeva e si chiedeva soccorso. Qualcuno restava vicino alla
casa dove stavano sepolti i suoi: “Era tornato il sole. Nelle ricerche la
gente trovava pezzi di carne: c’era il veterinario che verificava se si
trattava di carne umana o di animale” (Angelo Piantoni - Dezzo).
I giornali spararono i loro titoli in prima pagina. Achille Beltrame, il
disegnatore pittore della Domenica del Corriere pubblicò alcune tavole a colori
(vengono pubblicate sul numero di luglio di Araberara). Si parlò di 600 morti.
In realtà i morti accertati furono 356 (235 della Valle di Scalve e 121 nella
zona tra Angolo e Darfo).
A Dezzo una lapide posta fuori dalla chiesa riporta i nomi di 180 persone. Altre
lapidi, a Bueggio e Corna di Darfo portano gli elenchi di altre decine di morti
nel disastro.
Forse è la storia di una vergogna collettiva, subita senza poter far niente,
tutti sapevano, tutti erano rassegnati, molti ponevano cieca fiducia nei tecnici
e la grande opera aveva suscitato anche grandi speranze: quella diga
“massiccia e maestosa. Non temete, par che dica, vi proteggo io” (il parroco
di Bueggio così scriveva l’11 novembre 1923). “II Signore non paga tutti i
sabati, diceva un prete. Ma quella volta ha pagato di sabato”.
Dopo 75 anni, la felice iniziativa del Cai scalvino, ci ha permesso di
ricordare. Sul nostro territorio stanno ancora scolpiti i segni della memoria.
E’ in noi che si cancellano più facilmente. Questi anniversari servono a non
dimenticare.
p.b.
(Le
notizie e le interviste sopra riportate sono tratte dal paginone de “Bergamo -
Oggi” dedicato al 60° anniversario del disastro. Gli articoli e le citate
interviste erano di Piero Bonicelli.
La Biblioteca Comunale di Vilminore, in collaborazione con l’editrice IL FILO
DI ARIANNA e la Comunità Montana (che si è fatta carico dei costi) ha
provveduto alla ristampa del volumetto: “L'acqua, la morte, la memoria - Il
disastro del Gleno” a cura di Angelo Bendotti, stampato nel 1984 e andato
esaurito.)