Il Secolo
lunedì 3 dicembre 1923
Il Re si reca a visitare i luoghi devastati dall'Alto Bergamasco
L'impressionante spettacolo di rovina e di morte - L'infaticata opera di
soccorso - 600 morti e 130 milioni di danni - Le origini del disastro - Quel che
narrano i superstiti
(Dal nostro inviato speciale)
Bergamo, 3 mattina.
Apro gli occhi meravigliati sul malinconico sole dell'estate dei morti, che
illumina a gloria la terra e il cielo. Le montagne bergamasche si stagliano in
una chiarità vitrea. Non più una nube che ondeggi sulla loro corona o si pose a
impernacchiarne il cucuzzolo già bianco di neve. Oserei dire che un vento di
primavera ha spazzato via la tragedia valligiana.
Ed ecco le campane di Mazzunno e di Azzone e di Schilpario salutarsi, come se si
chiamassero con una religiosa stanchezza, ed insistessero perché un'altra voce
si unisse alle loro appello accorato. Ma Dezzo non risponde più nella tranquilla
mattina domenicale. Chiuso tra i boschi, occhieggiava, appena ventiquattr'ore
fa, con le sue case nuove e le catappecchie affumicate di un antico forno di
fusione del ferro. Oggi, sembra che la sua scomparsa sia dovuta ad un miracoloso
effetto di luce, o a qualche satanica magia, che debba sollecitare un
tristissimo giuoco dell'illusione.
Sono venuti a rivedere le case vecchie e le nuove, gli uomini del Dosso e di
Barzesto! Si sono fermati a cercare la cappella di Sant'Andrea, al bivio per
Vilminore. Ed inutilmente, insieme alle loro donne, che hanno il volto
incorniciato nei fazzoletti neri e rossi, hanno scorso con gli occhi le località
conosciute.
Dezzo non esiste più, in parte. Sulla sponda
sinistra del torrente, poche rovine. Sopravvive una sola casa che era
disabitata. Lo sperone di rocce è ignudo, squallido: una pietraia. Nemmeno una
traccia dell'ondata omicida rimane. Di Azzone, che è nella riva destra, è stato
risparmiato soltanto il gruppo di cascine al di qua dell'enorme macigno di
pietra, che sembra messo a sentinella della piccola frazione.
Ma anche quelle abitazioni che la corrente infernale ha rispettato sono ora
pericolanti. Potrebbero crollare da un momento all'altro.
Come
si è scatenata l'immensa catastrofe, che ha travolto tre paesi e seminato la
morte per più di 25 chilometri!
Andiamo a vedere il bacino del villino com'era, protetto dalla diga massiccia di
37 metri, sulla piattaforma in muratura larga 45. Le tre arcate di sinistra
hanno ceduto e dato il passo all'ondata tumultuosa. Il primo vaso - secondo i
competenti - poteva contenere 4 milioni di metri cubi di acqua. Si decise di
elevarvi una soprastruttura ad archi, in cemento, che accogliesse un eguale
quantitativo, nei suoi 400 metri di costruzione a ventaglio. Il genio civile
dava il collaudo grado per grado.
Bisogna stabilire se il cadere delle piogge, che quest'anno infuriarono con una
eroica violenza in tutta la regione, abbia determinato una soverchia immissione
di acqua nel bacino, o se l'immissione sia stata invece forzata. Bisogna
stabilire anche se il materiale adoperato per la costruzione era effettivamente
cemento e non semplice calce contro la quale poteva facilmente accanirsi la
corrosione dell'acqua.
Ma, ammessa la determinante prima, riportiamoci alla cronaca. Raccogliamo la
voce che si diffonde sullo strazio della popolazione, che accorre da tutti i
paesi vicini.
Si conferma che il sorvegliante delle paratie si fosse accorto di una grossa
crepa che si era prodotta nella soprastruttura nel bacino del Gleno. Ha
comunicato la sua scoperta alla centrale di Mazzunno. Dalla centrale di Mazzunno
qualcuno è disceso a Darfo a portare la notizia.
Notizia orribile! Ma chi poteva prestarvi fede? Il Dezzo si ingrossa! Ebbene, è
naturale che un torrente sotto l'azione delle piogge moltiplichi il volume delle
sue acque: si avrà un allagamento. Nulla di eccezionale... Quattro ore dopo
l'avvertimento, il rombo sordo che si scatenò dalla montagna segnò l'annunzio
della strage. Troppo tardi. Quando la diga cedette, e il fiotto immane
dell'acqua si sfasciò con la violenza della sua massa, che precipitava da 1600
metri di altezza, non fu più possibile correre al riparo. La colata si diffuse
enorme, in un solo getto distruttore. Giù per Bueggio, sfiorò Vilminore, si
abbatté su Azzone e Dezzo, si moltiplicò in furore ed in potenza per Colle,
Dazze e Mazzunno, rimbalzò sulla val d'Angolo deviando verso Gorzone.
Incanalata, ormai, in una fiumana maledetta, sfociò sull'Oglio, schiantandosi
alla piana su Corna e Darfo. E l'Oglio la diffuse, straripando.
La portò fino al lago di Iseo.
Nella caduta vertiginosa, gli abitanti sorpresi quasi nel sonno, furono
sommersi, travolti, sbarazzati nella valanga. La centrale idroelettrica del
Dezzo scoppiò con grande fragore, e quasi immediatamente cedettero sotto lo
scroscio i due impianti collegati, e quello della Ferriera di volte, e l'altro
di Mazzunno, del quale non rimasero in piedi che le turbine annerite. I
materiali travolti nella cascata immane, alberi e ponti, travi e mattoni,
macigni e suppellettili, le cose più diverse e più antitetiche nei rispettivi
valori di grandezza e di quantità, rotolarono verso la confluenza del Dezzo
coll'Oglio.
Ma giunta in piano, nel primo enorme zampillo, che però subito un'ondata alta
una trentina di metri, anche i tubi della conduttura forzata delle Ferriere di
Voltri scoppiarono con un tonfo secco, si sbriciolarono, furono proiettati ad
inverosimile distanza. E la colata oceanica si diffuse, coprì le case e il
grande padiglione della Ferriera. Si diramò in fiumiciattoli furibondi,
scatenandosi su Corna in una furia di devastazione e d'orrore.
Il grido della popolazione si fece veramente sentire, qui. Qui soltanto,
qualcuno poté mettersi in salvo. S'udirono invocazioni disperate:
- Donne salvatevi!
Ed uscirono dalle case femmine seminude e urlanti, coi bambini al petto, e le
chiome scomposte.
- Ven giò el Dezz! Ven giò el Dezz!
Turbine di pietre d'acqua. Massicci macigni di pietra rossa, che serve alle
costruzioni paesane, staccati dalla montagna madre, erano precipitati su Corna.
Il lato sinistro della Ferriera cedette col suo padiglione immenso. Le mura si
accorciarono, e le tettoie si adagiarono naturalmente sul terreno, come
coperture di sepolcri. Le case nuove, le case degli impiegati, furono
frantumate, livellate, dalla fantastica pioggia di pietre. Nessuna traccia le
ricorda, oggi. L'acqua e il fango hanno colmato le fosse, e formato delle dune
di rena. E il fiume vi gorgoglia rossigno e minacciante.
Poi, la colata si diffuse a raggiera. Invase il letto dell'Oglio. Straripò
micidialmentre su Darfo. Il paese fu sommerso sotto un'ondata di 3 metri, che
ribollì nelle vie e fra le case, gialla di terra e turbinosa di tronchi e di
radici, così rosse e vive che sembravano insanguinate. Né si fermò ancora. Dai
massicci di val d'Angolo, s'inabissò verso i campi di Lovere, si mutò in
acquitrini pieni di sterpami e di rifiuti d'ogni genere, finché il fiume non la
condusse domata verso l'Iseo.
Stamane, il lago appare macchiato su vaste zone, di legname che si è formato in
oasi morte. In queste oasi vagano barche e chiatte. Tirano a bordo con gli
uncini materiali di recupero, e salme sciagurate e pietose che dal Dezzo, la
corrente inumana ha trascinato per più di 25 chilometri. Un silenzio tragico
incombe sulle cose e sugli uomini. Il ponte Barcotto, uno dei pochi che ha
resistito all'impeto della valanga, è pieno di fango limaccioso, che si fa più
denso e più alto via via che ci avviciniamo a Corna.
Qui si ha veramente l'impressione di un paese, che i soldati della Milizia
nazionale, vadano dissotterrando, scavando con le pale, dal fondo di un antico
regno e di una civiltà remota. Lungo le stradicciuole, vengono alzati argini di
fango, che si appoggiano alle mura delle case, per aprire un varco al passante.
Le porte e le imposte sono state divelte, e nei pianterreni oscuri, si sono
accavallati, frantumi di masserizie, e barbe di radici, e terriccio, grate di
ferro, in un miscuglio caotico. Talora, da un sopportico che si apre come una
gola, scivola un fiumiciattolo di acqua gialligna.
Rumor di pale e di vanghe. Null'altro. Passano uomini come spettri, sbucando
dalle case come da antri trogloditici. Qualcuno porta in salvo un oggetto,
sottratto alla rovina. Qualche altro, nasconde in una cesta un mucchio di
biancheria deturpata dal fango nel quale affondiamo a mezza gamba. Poi, da una
stalla viene estratto il corpo morto di un bue, e appeso in un cortile.
L'operazione si ripete quasi di casa in casa. C'è in aria un odore ammorbante.
Nel ruscello fangoso della via principale, s'inseguono intanto carrettelle a un
cavallo, ricolme della terra, che viene tolta dalle abitazioni, e passano le
squadre degli operai addetti allo sgombero del paese. C'è un senso di pietà e
d'orrore che non si riscontra in nessun'altra parte della zona devastata. Perché
è qui, proprio qui, che i risultati infernali del disastro si assommano nelle
loro conseguenze più tragiche. Perché è qui che si sono abbattuti in maggior
numero i cadaveri delle vittime finora raccolti. Ne abbiamo già trovati 50 a
Lovere. Ed ora, girando verso Darfo ecco, che abbiamo soffermato il cammino
dinanzi a una chiesetta piccola e discreta.
Due
candelieri sono posti all'ingresso. (...) Un carabiniere, quasi inchiodato sui
battenti, sorveglia. Poi, spinge la porta. Ci invita ad entrare. È il primo
spettacolo veramente orribile e pietoso, che si presenta ai nostri occhi, in
tutta la sua miseria ed in tutta la sua brutalità umana.
Sulla terra spoglia, fra le braccia di una balaustra di falso marmo e davanti
all'altare che porta l'indicazione di "altare previlegiato", sono allineati
un'altra cinquantina di cadaveri. Nudi. Con gesto delicato, i militi della Croce
Bianca, li detengono dal fango che li deturpa, mettono al vivo le loro
sembianze, per poter procedere ad un possibile riconoscimento. In un miscuglio
curioso, così come le hanno portati coi camion, le salme sono disposte una
vicina all'altro: uomini d'età, mutilati dalla morte atroce e bambini quasi
lattanti.
Ve n'è uno, un piccolo Gesù da presepio, tutto roseo. Dorme in serenità. Ma
tende un piccolo pugno vendicativo. Ed appoggia quasi il minuscolo volto
innocente, su di una cesta, che contiene alla rinfusa membra umane, trovate
disperse per la campagna allagata.
Lo stesso spettacolo orribile si ripete all'ospedale di Darfo, dove i cadaveri
giacciono anche in maggior quantità in una specie di doppio deposito mortuario.
Ci prende un senso di raccapriccio e di sgomento. E sentiamo che anche l'urlo di
ribellione che vorrebbe uscirci dalla gola è in contrasto con questo sole
magnifico che illumina oggi la miseria degli uomini, e accende sinfonie di
colori, gialli, rossi, verdi nei grappoli di pannocchie che pendono a festoni
dalle terrazze di legno che ci circondano, e dà anima al canto dei galli che si
chiamano dai pantani in cui sguazzano come in un festino di nuovissimo stile.
Ma
in una corsia chiara dell'ospedale troviamo un superstite, Alfredo Nulli,
fratello del segretario politico del fascio locale, ferito, a Corna. Ci racconta
brevemente la sua avventura.
- Erano le 7.40. Mi vestivo per uscire. Ho sentito a un tratto un rombo e l'urlo
di una vecchia vicina di casa, Angela Cominotti, che grida di salvarci. Apro la
porta, e subito mi investe una ondata: che mi sommerge fino al petto, e mi
respinge con violenza sui gradini delle scale. Faccio in tempo a salire. Chiamo
mio padre, mia madre, il fratello, la sorella. Ci arrampichiamo fino al solaio.
Ma abbiamo appena raggiunto questo rifugio, che sentiamo il pavimento mancarci
sotto i piedi. Il tetto gira da destra a sinistra. Le pareti crollano. Mi
attacco a una trave di sostegno. Vedo mio padre e mio fratello che imitano il
mio esempio. Più nulla. Quando mi sono riavuto da una specie di stordimento che
mi ha preso, mi trovo al ponte della ferrovia. Ancora attaccato alla mia trave,
ma solo e senza potermi spiegare come ho fatto a percorrere i 300 metri di
distanza. All'orologio della parrocchia suonano le otto...
Il Nulli è il solo superstite della sua famiglia.
Poi, assistiamo a vicende strane che sembrano appartenere alla letteratura, e
non sono altro che l'umile verità della vita. Ci viene incontro una vecchia che
canta. Ha il volto seminascosto nello scialle. E la sua voce è stridula, e la
bocca sdentata.
- Che avete buona donna? Che avete? Canta e sorride.
- Siete contenta, nonnina? Canta e sorride, un canto tranquillo di follia.
Un certo Franceschetti, che ha perduto nella catastrofe tutta la famiglia invoca
con disperazione la madre sicché ad un certo momento si ha l'impressione che
egli stia impazzendo, ed è perciò allontanato.
Un operaio, certo Belotti, che viene a piedi da Lovere, ricerca ansiosamente i
suoi fratelli e quando incontra il parroco don Giovanni Morelli, gli grida:
- Ma mi dica lei dove sono! La risposta muta del prete fa rabbrividire il povero
artigiano che comprende la sorte toccata ai suoi famigliari, e si getta a terra
contorcendosi.
Un superstite di Dezzo, uno dei pochi di questa stazione semidistrutta, racconta
le sue impressioni.
"Somigliava - egli dice - a un mare con tutte le onde in burrasca". La semplice
definizione di questo contadino dà forse l'immagine più precisa dell'immane
disastro.
A un vecchio, il quale si è salvato in un fienile col cane e un bimbo in fasce,
ed è rimasto in questo suo nascondiglio per circa 20 ore, abbiamo chiesto come
fece a evitare la valanga d'acqua che si scatenò sul paese. Risponde che stava
raccogliendo del fieno e che come sentì il boato si rannicchiò nel fienile e vi
rimase aprendosi un piccolo spiraglio per poter respirare.
Dezzo, contrariamente a quanto si era affermato ieri nelle prime confuse
notizie, non è dunque completamente distrutto: è stato spazzato via in parte,
insieme alla Chiesa ed alla torre comunale. La sciagura poteva essere maggiore:
nel momento infatti in cui si sferrò l'ondata distruttrice, la maggior parte
delle donne del paese era raccolta in casa. Dato l'allarme, si precipitarono
fuori e si arrampicarono per il pendio delle montagne vicine. L'ultimo a uscire
fu il parroco, don Pietro Rota. Investito e sbattuto sopra una colonnetta, è
stato ritrovato stamattina ferito gravemente. A Dezzo, secondo un primo
censimento, mancano le seguenti persone: Duci Giovanni Maria, fu Battista; Duci
Angela, fu Giovanni; Duci Gottardo, fu Giacomo, Duci Angelo, fu Giacomo; Duci
Agostino, fu Pietro, Morzenti Maria, fu Gerolamo, Morzenti Domenico, fu
Gerolamo.
È stato fatto un censimento delle vittime delle cinque centrali elettriche che
sono andate distrutte.
Alla centrale di Povo mancano l'Ingegner Daniele Piccoli, direttore, che era
stato poi ritrovato a pezzi sotto Dezzo, e sua moglie. Una curiosa coincidenza
fa sì che il corpo della disgraziata signora sia stato rinvenuto in condizioni
orribili, con la testa staccata dal busto nella medesima località in cui l'anno
scorso, vittima di un incidente automobilistico trovò la morte il dottore
Gavazzeni. Il compianto dottore si recava proprio a visitare - come bene si
ricorderà - la signora Piccoli allora assai ammalata.
Dalla centrale di Val Bona mancano il direttore Gantato Giuseppe e gli operai
Morandi Angelo, Sizzi Paolo, Battaglia Giovanni, Pirolini Amedeo e Borella
Italo.
Nel paese di Vilminore, che non ha subito gravi danni, è morto certo Morandi
Bartolomeo il quale stamane è stato trovato in un fienile.
I
lavori di soccorso che non avevano avuto sosta durante tutta la notte piovosa, e
che sono proceduti anche al lume delle torce, continuano per opera dei Militi
fascisti, dei soldati e dei carabinieri. Le opere che urgono sono i ponti per
riattivare le comunicazioni. A Dezzo, sì è gettata una prima passerella che
attraversa il torrente, e si costruisce un ponte sull'altro torrente Rino. Le
comunicazioni così riprese servono per il trasporto dei cadaveri che si
rintracciano alla rinfusa. Le salme vengono allineate nella casa dei "Piantoni"
rimasta miracolosamente in piedi e vigilata da un Milite nazionale. È possibile
riconoscere la testa di una donna per quella della consorte dell'Ingegner
Daniele Piccoli, della quale abbiamo parlato. Non si riconoscono altre dodici
salme di adulti e tre di bambini, fra cui una di circa due mesi, ancora avvolta
nelle fasce. Mentre il trasporto dei cadaveri avviene, giungono soccorsi e si
dispongono i servizi di vettovagliamento provvedendo alla costruzione di
baracche. Si lavora quasi con religiosità. Una folla commossa di contadini
guarda desolata e piangente il paese distrutto.
Le dolorose approssimative statistiche si riassumono oggi nelle seguenti cifre:
morti, da 500 a 600; danni, ai fabbricati, ai boschi, ai campi, circa 130
milioni: senza calcolare il danno morale per tutta la valle, che risorgerà
chissà quando alla sua floridezza ed alla vita di un tempo.
L'ingegnere capo della provincia di Bergamo Zanchi e l'ingegnere Sassi del Genio civile interrogati sull'origine e sulla responsabilità del "sifolamento" della diga del Gleno, si sono limitati a rispondere che per ora non è possibile dare dei ragguagli. Tutte le sue responsabilità in ordine civile e penale saranno valutate da una commissione nominata già dal prefetto che si recherà sul posto domani. Per ora nessuno è ancora andato alla diga e può accertare le cause precise della rottura.
Si
sta intanto preparando, per conto della provincia, la costruzione di una strada
carreggiabile provvisoria per i trasporti dei generi di prima necessità nel
tronco Dezzo-confine bresciano. Gli altri lavori di riordinamento della Via Mala
saranno iniziati subito.
Stamane sono giunti a Dezzo i direttori delle
tre banche che vi avevano le succursali: le banche bresciane: Perlasco e Santi
Faustino Giuditta e la bergamasca Banca Mutua popolare.
Le casseforti non è stato possibile rintracciarle perché trasportate via dalla
corrente.
Sono giunti anche i proprietari delle centrali elettriche: signori Viganò, di
Ponte Albiate in Brianza.
Verso mezzogiorno si è sparsa poi la notizia che un telegramma da Roma
annunciava per domattina l'arrivo del Re e del Ministro Carnazza. La notizia è
stata presa con vivo piacere.
Anche Gabriele D'Annunzio, che intanto ha mandato a Darfo suo fiduciario Masperi
visiterà domani i luoghi colpiti dal disastro.
Così conclude la tristissima cronaca di lutto ed orrore, mentre l'ombra si
distende dal monte alla piana, e si accendono i primi lumi tremanti, nei paesi
assonnati. Grandi fumate di torce gettano barbagli rossi fra gli alberi
contorti. E la fatica instancabile dei militi e degli artigiani, continua nel
silenzio religioso della notte.
Enrico Cavacchioli
Un
nostro redattore che viaggia sul treno reale ci telegrafa da Firenze in data 3,
ore 2 mattina:
Appena appresi i terrificanti particolari del disastro di valle di Scalve, il
Re, che ha voluto durante tutta la giornata essere via via minutamente informato
sulle sorti delle popolazioni colpite da così immane sventura, e che è rimasto
profondamente commosso da tanta tragedia, ha immediatamente espresso la volontà
di recarsi nelle regioni devastate.
Ieri sera, infatti, alle ore 20 con treno speciale il Sovrano, ossequiato alla
stazione dalle autorità, partiva alla volta di Brescia. Col Sovrano viaggiano
l'aiutante di campo generale Cittadini e i funzionari della Casa Reale. Con lo
stesso treno è partito il sottosegretario degli Interni onorevole Finzi, in
rappresentanza del Governo. Lo accompagnano il commendator Valenti e il
commendator Marchesi. Il Presidente del Consiglio che acerbamente colpito dalla
notizia della sciagura rimase assiduamente a contatto telefonico con le autorità
di Bergamo e Brescia, e non ha potuto partire stante le gravi cure del Governo
ha incaricato l'onorevole Finzi di rappresentarlo.
Il treno celerissimo vola verso la regione dell'orribile sinistro traverso una
notte gremita di stelle e un'alba purissima che sembrano non potere sovrastare a
tanta sventura umana. Dalle principali stazioni lungo il tragitto vengono
recapitati al Sovrano i dispacci recanti nuovi ampi particolari del disastro. Il
Re esprime la sua grande impressione e commozione con parole di profondo
cordoglio e si interessa soprattutto delle disposizioni dei soccorsi apprestati
alle pacifiche, laboriose popolazioni colpite.
In Sovrano e l'onorevole Finzi appena giunti a Brescia proseguiranno verso le
località devastate e porteranno a quelle disgraziate folle con la loro presenza
e con la loro parola l'espressione del vivo cordoglio dell'intero Paese e del
Governo nazionale.
Disporranno personalmente per nuovi pronti efficaci larghi aiuti.
Mutilati e combattenti per i soccorsi
Bergamo, 3 mattina.
Tutta Bergamo e la Bergamasca sono ancora sotto l'impressione dell'immane
catastrofe. L'iniziativa di una sottoscrizione è stata presa durante
l'inaugurazione della Casa del Mutilato da Carlo Deleroix, che ha offerto a nome
dei mutilati d'Italia lire 5000. La sezione mutilati di Bergamo a sua volta ha
subito messo a disposizione la somma di lire 3000 tute, la sezione combattenti
di Bergamo lire 4000.
Lo slancio dei gloriosi reduci è valso e varrà a moltiplicare le sottoscrizioni
per i danneggiati. E giungono continue notizie da tutte le parti d'Italia che si
sta procedendo alla raccolta dei fondi per i soccorsi. Tutte le ottanta sezioni
dell'associazione combattenti sparse nella provincia hanno ripreso le
sottoscrizioni le quali fanno capo unicamente al commissario straordinario per
il comune di Bergamo.
A visitare i luoghi colpiti dal disastro di Gleno, sono stati oggi il generale
Cattaneo comandante il Corpo d'Armata di Milano Alfieri, Dall'A e Chiodi (...),
S. E. l'onorevole Bonardi, l'onorevole Belotti, gli assessori del Comune di
Milano Alfieri, Dall'Ara e Chiodi.